Il grembiule ed il mantello

Il presente contributo vuole indagare come l’abbigliamento entri nel contesto turistico, configurandosi come un vero e proprio “valore aggiunto”.
In particolare si vuole analizzare alcuni case study contemporanei particolarmente indicativi. Il primo caso è l’uso (ed abuso) del costume tradizionale, una realtà recuperata negli ultimi anni come simbolo di identità comunitaria. La sua scomparsa dal tessuto tradizionale ha fatto sì che, con la crisi dell’uomo postmoderno e l’avvento dei flussi della globalizzazione (ed in primis quello che potremmo indicare come Tourism-scape) venisse recuperato, diventando sia nuovo simbolo identitario, sia veicolo di rilancio turistico, di fakelore.
Analogamente al vestito tradizionale anche una sua “evoluzione postmoderna” quale il vestito del Cosplayer ha seguito un percorso analogo, che si muove tra i due estremi di sacralizzazione e di feticizzazione.
In questi diversi usi dell’abbigliamento “identitario” si possono riconoscere senza difficoltà gli aspetti di tutela e valorizzazione, due aspetti complementari, certo, ma che nell’ambito dei prodotti culturali materiali, cosi come in quelli immateriali, possono anche cozzare tra di loro. Se da una parte infatti la tutela può diventare sacralizzazione e musealizzazione (importanti se vogliamo dal punto di vista turistico), la valorizzazione può portare ad una sua “snaturalizzazione”, portando il vestito in contesti non usuali e fino a pochi anni fa inaccettabili. Le persone vestite da Alien che si fanno fotografare a Parigi con dietro la Tour Eiffel non sono infatti tanto diversi dalle donne in costume tipico che preparano o semplicemente servono prodotti tipici, che vengono percepiti, proprio grazie all’utilizzo dell’abbigliamento, come un qualcosa di più valido e che giustificano un esborso maggiore: il cosiddetto “valore aggiunto della tradizione”.
Attraverso alcuni esempi, si potrà delineare una sorta di “sviluppo sostenibile”, ovvero strategie di utilizzo del costume e della cultura bilanciandosi correttamente tra la tutela e la valorizzazione. 

 

Parole chiave:
marketing, abbigliamento, “valore aggiunto della tradizione” 

 

1 - Premessa. Il nostro bisogno di “Tradizione”

Una delle cartine di tornasole del nostro mondo è di sicuro il web. Alcuni strumenti, quali Google - in particolare la sua versione di ricerca immagini ,- sono fondamentali per lo studio della contemporaneità. Basta fare un piccolo esperimento: provate a cercare “vestito tipico” sul motore di ricerca e verrete catapultati in un mondo di folklore (e fakelore mi permetterei di dire!) che spazia tra le ragazze in costume tipico tirolese ed i vestiti elegantemente esposti su manichini dei musei, da bamboline souvenir (alcune di dubbio gusto) a processioni e feste tradizionali ancora oggi molto sentite. Questo perché, oggi, parlare di tradizione è uno dei topic trend utilizzati in vari campi: da quello turistico a quello enogastronomico, passando dai claim pubblicitari di prodotti o luoghi. Oggi, inutile nascondersi, tutto è tradizione, e questo è un bene che andiamo cercando molto, perché ci permette di rispondere alla cosiddetta “crisi dell’uomo postmoderno” (cfr Grimaldi, 1996), è una risposta “solida” a cui possiamo ancorarci noi eponimi della società liquida (cfr Bauman, XXXX), è la reazione ai flussi della globalizzazione (cfr Appaduraj, 1999?).

Parlare di tradizione oggi è un vero e proprio valore aggiunto, anche economico….

 

2 - Il costume tipico

Come è noto, il “costume” era di fondamentale importanza per la comunità: il “vestito della festa”, che accompagnava le donne dalla culla – o, meglio, dal matrimonio - alla bara era un simbolo di appartenenza. Il costume, infatti, era diverso a seconda del paese di provenienza e le differenze, in particolare nel caso ossolano, stavano nei particolari. Il foulard piuttosto che l'allacciatura del panèt e l'acconciatura dei capelli - ad esempio le trecce, quazz, in uso a Vogogna (Ciurleo, 2014) - piuttosto che il ricamo sul petto o i diversi colori erano simboli caratterizzanti una comunità. 

Il costume tipico, così come ci è stato consegnato, è un chiaro retaggio del XIX secolo, quando la moda borghese cittadina, che prediligeva colori scuri quali il nero o il viola, si impose anche in ambito montano (Saiu, 2008) e, di conseguenza, in Ossola.

Sono state proprio le donne le ultime ad abbandonare l'uso del costume, in anni anche relativamente recenti: gli uomini si conformarono ben presto alla cosiddetta “divisa borghese”, con pantaloni a sigaretta e cravatta che annullavano i richiami alla sessualità (MacLaren, 1999). E, allo stesso modo, sono state proprio le donne, in anni ancora più recenti, a recuperarne l'uso in ambito folk, talvolta codificandone gli elementi. 

L'uso del costume in tempi recenti è testimoniato ad esempio a Luzzogno, in Val Strona, dallo studio condotto da Battista Saiu, che ha fotografato, ancora pochi anni fa, donne che lo indossavano quotidianamente (Saiu, 2008).

In Ossola l'uso del costume è oggi limitato alle feste che rivestono una qualche matrice folk, in primis la patronale. Ma fino agli anni '50 del secolo scorso non era così - e nei paesi montani quali Cravegna addirittura fino agli anni '70 / '80 – e le donne portavano ancora il costume tipico. Testimonianza di questo si può avere da un semplice giro nei cimiteri e dall'osservazione delle foto delle defunte: almeno fino a metà del XX secolo esse indossavano elementi del vestito tradizionale, in particolare i copricapi ed i foulard. E poiché molte si facevano seppellire in costume, è difficile trovare oggi abiti tradizionali originali. In ogni caso le donne, che, come detto, hanno abbandonato per ultime il tipico abito festivo, sono state le prime a recuperarlo, facendo così nascere vari gruppi folkloristici.

L'Ossola risulta particolarmente ricca di queste associazioni, prevalentemente al femminile. Una parte, ad esempio, si è associata al gruppo più vasto de “Le donne del Parco”, che riunisce le varie formazioni delle comunità inserite nel Parco Nazionale della Valgrande. Ancora in questi anni sono nate nuove associazioni che si sono occupate di codificare – e, al limite, reinventare - il costume tipico di un Comune; cito, ad esempio, il gruppo “I takar” di Montecrestese, nato da pochi anni e composto prevalentemente da giovani, tra cui, caso piuttosto singolare, anche molti maschi.

Un'opera di riscoperta del proprio passato, certamente, ma anche di riappaesamento, un tentativo cioè di costruzione - o ricostruzione - di una propria identità, che passi attraverso il ritorno a simbologie del passato, in una sorta di folk-revival.
È molto bello assistere, ad esempio, alla festa dei Santi Gervasio e Protasio, patroni di Domodossola, e vedere sfilare, come accaduto quest'anno, centinaia di donne in costume, divise in gruppi a seconda del paese o dell'associazione di provenienza, precedute da uno stendardo didascalico, che sottolineava - ma un tempo non sarebbe stato necessario - l'individualità del gruppo e naturalmente l'affermazione identitaria in contrasto con l’alterità.

Quella di indossare il costume è una problematica che va affrontata con una certa lucidità: tralasciamo il quesito, che sa molto di filosofia spiccia, se sia nata prima la codificazione del costume o l’usanza per cui le donne lo indossano. Soffermiamoci su un altro aspetto, ovvero sul significato di portare il costume oggi. Come spiega Rosalia Zaccheo «portare i costumi è per noi un gesto di recupero della memoria del territorio, è il modo per esprimere la nostra orgogliosa appartenenza ad esso e sottolineare il nostro ruolo femminile di conservazione della tradizione» (Zaccheo, 2012).

Una presa di posizione molto forte, che pone l'accento sulla differenza che intercorre tra folklore e folklorismo o, meglio, tra folk e fake (Ciurleo, 2013b). 

 

3 - Due atteggiamenti diversi: sacralizzazione ed esibizione

Si può dire che oggi esistano almeno due linee filosofiche riguardo l'utilizzo del costume. Da una parte troviamo la frangia conservatrice, che “sacralizza” l'abito o, se vogliamo, vede il costume come un oggetto rituale, che deve essere utilizzato solo in determinate occasioni; dall'altra una visione più “esibizionista”, che vede il vestito come un valore aggiunto “spendibile” anche in ambito turistico. Ecco quindi che le “uscite” dei vari gruppi e la loro partecipazione agli eventi performativi possono essere una valida cartina di tornasole per scoprire la filosofia del gruppo e la concezione del vestito. Se vogliamo estremizzare le due scuole di pensiero, da una parte troviamo l'abito/feticcio usato solo in occasioni “sacre”, dall'altro l'abito/travestimento, utilizzabile anche a fini turistici o carnevaleschi. Esporsi a giudicare quale sia la strada migliore è molto difficile. Se da una parte, infatti, “l’integralismo” consente, quando funziona, di preservare l’apparato folk, dall’altro questa chiusura rischia di “fossilizzare” e standardizzare ancora di più gli abiti tradizionali, che, invece, facendo parte di una cultura viva, possono - e mi permetterei di dire devono - modificarsi in risposta alla contemporaneità.

Il secondo atteggiamento, da una lato ha certamente il vantaggio di mantenere vivo l’uso del costume e di riproporlo come simbolo di aggregazione, ma dall’altro rischia di snaturarlo drasticamente. Viviamo in un mondo dove l’usanza del “vestito della domenica” si è persa - in molti casi il week end è proprio l’occasione per mettersi in libertà, vestendosi con bruttissime ma comode tute, quasi in risposta all’abbigliamento giacca e cravatta o tailleur che si indossa per lavoro - e sarebbe forse il caso di mantenere l’uso del vestito tradizionale limitato a poche occasioni durante l’anno, di forte valenza rituale e simbolica: sì alla festa patronale, no al ballo in maschera o alla sfilata carnevalesca.

 

 

4 - Dal vestito al cosplay

Molto interessante ed intrigante è accostare il costume tipico ad una nuova forma, una sorta di evoluzione del costume tipico, ovvero il fenomeno dei cosplay. SI tratta, sotto molti aspetti, della risposta della generazione dei cosiddetti Millenials alla globalizzazione, frutto se vogliamo del media-scape (ed in parte del tecno-scape, che ha permesso la diffusione “worldwide” del fenomeno) e della crisi identitaria e delle tradizioni. Avendo perso, infatti, il senso di appartenenza, declinato in co-discendenza, co-residenza e co-trascendenza, le nuove generazioni si ricreano una cultura di massa completamente scollegata al modello tradizionale, reinventando mitologie (le famose saghe, quali ad esempio Star Wars [cfr Guglielmino, 2018] o Il signore degli Anelli) e modelli in cui riconoscersi, attraverso anche - e forse soprattutto - il travestitismo sotto forma di cosplay. Ma in che cosa consiste? Semplicemente nel “mascherarsi”, o meglio nell’impersonare, i propri beniamini, provenienti soprattutto dal mondo degli anime, dei manga, dei fumetti o delle serie tv.

Sono moltissime le analogie tra chi indossa il costume tipico e chi fa cosplay, soprattutto per la sapienzialità coinvolta e per la ritualizzazione. Una ritualizzazione che prevede persino un vero e proprio calendario rituale molto forte dove indossare il proprio costume. In Italia l’evento più importante, una sorta di “La mecca” laica e postmoderna, è senza dubbio il Lucca Comics & Games, che si svolge ogni anno tra fine ottobre ed inizio novembre, per una durata di cinque giorni. La cittadina toscana, in quell’occasione, viene letteralmente invasa da un esercito di figuranti.

Oggi si è arrivato a sdoganare completamente la figura del “nerd” (in italiano la traduzione “secchione” non rende abbastanza) e del “geek” (il nerd ancora più tecnologico), stigmatizzata a suo tempo e motivo di esclusione sociale. Oggi “nerd” e “geek” sono forse quelli più attivi a creare comunità, soprattutti in ambito dei grandi raduni, quali i Cartoomics o i Comicon (leggermente diversi dalle classiche fiere del fumetto). La figura del nerd è diventata protagonista di sitcom di successo quali The Big bang theory, un caposaldo dell’intrattenimento seriale che ha a tutti gli effetti sdoganato la figura del nerd togliendo loro la patina di looser che li aveva contraddistinti fino ai primi anni Duemila.

Anche in questo caso possiamo catalogare i due atteggiamenti con cui il vestito viene portato, come nel caso del costume tradizionale

Da una parte troviamo il “cosplayer duro e puro”, che utilizza rigorosamente un costume fatto artigianalmente, magari facendosi consigliare da altri appassionati su forum e gruppi Facebook appositamente dedicati per gli aspetti maggiormente tecniche, quali la giusta modellazione del foam o dove acquistare alcuni materiali di consumo. Lo studio di questi gruppi è interessante perché sono delle vere e proprie comunità virtuali, occasioni non sono per scambiarsi consigli ma anche per denunciare alcuni disservizi o persino per creare dei gruppi di cosplay a tema, portando l’interazione dal piano virtuale a quello reale. In questo primo caso il Cosplayer sceglierà accuratamente gli eventi a cui partecipare, magari dove la giuria vede un influencer di questa comunità (Tra le più note ed attive ci sono Giorgia Cosplay o Himorta). Il costume difficilmente verrà utilizzato in contesti diversi dai comicon, quali ad esempio feste in maschera o carnevali di paese.

Il secondo atteggiamento è molto più leggero, ed è quello che definirei il “cospalyer divertito”. In questo caso non vi è sacralizzazione del costume, che può essere molto più mainstream e prevedere anche prodotti industriali. Il costume viene usato, in questo caso, in svariate occasioni, comprese feste in maschera o carnevali o anche Halloween. Questo tipo di Cosplayer è anche disposto a soddisfare il suo bisogno di apparire facendosi fotografare in contesti avulsi dal mondo cosplay, ad esempio sul Trocadero davanti alla Tour Eiffel.

 

5 - Il turismo dei cosplay: qualche dato economico

Il fenomeno dei cosplay è anche un vero e proprio fenomeno economico di primissimo piano, che crea un giro di affari e di indotto non indifferente. Romics, l’evento di inizio ottobre che si svolge a Roma, nel 2019 ha segnato circa le 200mila presenze. Cartomics, a Milano il primo weekend di marzo, è costantemente oltre le 100mila presenza. Il Comicon di Napoli nel 2019 ha superato le 190mila presenze. Il Lucca Cimics & Games del 2018 in cinque giorni ha registrato 251mila ingressi di ticketing, quindi di persone paganti. Ma la conformazione stessa dell’evento prevede diversi eventi gratuiti, ed il numero aumenta considerevolmente. Per dare un numero di paragone la finale di Champions League 2018 ha registrato un quarto delle presenze di Lucca. A questi ingressi si aggiungono ben 331 “Level up fan”, ovvero ingressi a costo aumentato che permettevano di avere alcuni benefici quali Artbook o incontri in anteprima con gli ospiti della kermesse. Un Lucca Comics & Games che ha avuto 14mila download della app ufficiale, e la realizzazione di 30mila “poster LRNZ”, un Contest social.

Il giro di affari per il turismo e l’accoglienza è molto grande: le prenotazioni avvengono da un anno all’altro, coinvolgendo affittacamere, hotel, b&b di tutta l’area, da Lucca sino a Viareggio sino al Lido di Camaiore, con prezzi a camera di alta stagione.

Se guardiamo invece i dati del Comicon di San Diego, l’evento USA più importante al mondo, dove vengono annunciate in anteprima le grandi produzioni seriali o cinematografiche, con le grandi major quali Disney o Marvel studio, si parla di 130mila ingressi contingentati in quattro giorni. I biglietti in prevendita letteralmente spariscono, in soli novanta minuti contro i sei mesi di preventita di una decina di anni fa, nonostante il loro prezzo non sia certamente a buon mercato, aggirandosi sui 60$ con un pass per quattro giorni di 276$ (cfr Fumettologica.it). Facendo un rapidissimo conto le vendite dei ticket di ingresso sono superiori agli 8milioni di dollari

 

6 - Strategie per uno sviluppo sostenibile

Come visto il costume tipico (assimilabile come visto al cosplay) è un prodotto culturale, sottoposto alle variazioni del tempo ed alle mode. Questo risulta ancora più evidente nel fenomeno del cosplay, dove ogni anno si trovano alcune figure principali che vantano centinaia di “copie” (ad esempio Harley Queen di Suicide Squad).

Il recupero del costume tipico è quindi figlio del nostro tempo, risposta alla crisi culturale e sociale della società liquida, ma anche come risposta e reazione al flusso turistico, ovvero al tourism-scape (cfr Ciurleo, 2019). 

Possiamo quindi delineare ed ipotizzare tre casi relativi all’utilizzo del costume.

Nel primo caso possiamo trovare la musealizzazione del costume, che crea, come visto, come effetto la “morte” dell’uso del costume, ovvero il suo mancato inserimento nel contesto culturale, rendendolo incapace di rispondere alle esigenze contemporanee. Se il costume posso portarlo solo ed esclusivamente in occasioni “sacre” e ben “codificate” c’è il rischio concreto di vedere queste occasioni sparire, rifiutando altri contesti.

Il secondo caso, se vogliamo speculare, è quello della sua “feticizzazione”, ovvero di un suo uso indiscriminato, perdendone di conseguenza l’aspetto rituale. Il vestito tradizionale in questo caso diventa non più abito della festa, ma abito quotidiano, con un suo fortissimo depotenziamento, anche a livello identitario: se tutti portano il costume tipico e si foggiano di portare avanti le tradizioni, paradossalmente queste tradizioni diventano tutte uguali, indistinguibili l’una dall’altra.

Il terzo caso, auspicabile, è quello di un uso consapevole del costume tipico, senza cadere nei due estremi. Ed in questo caso si potrebbe guardare non tanto al mondo della tradizione ma al suo opposto: il globalissimo fenomeno dei cosplay potrebbe essere un interessante ed efficace spunto di riflessione.

 

Bibliografia

 

 

Ciurleo, Luca

2005 - L'immaginario folklorico ossolano. Dal valico al traforo del Sempione. Prova finale del corso di laurea in “Studio e gestione dei beni culturali”, Università del Piemonte orientale, Vercelli

2006 - Sempione: la sottile linea scura, (a cura di), Comitato Cent’anni di Sempione, Vercelli

2007 - Tradizioni e neotradizioni in Ossola: tra riscoperta del passato e rilancio per il futuro, Tesi di laurea in “Antropologia culturale ed etnologia”, Università di Torino, Torino

2010 - Gente di paese, paese di gente. Indagine etnografica sul comune di Piedimulera, Edizioni GraficaElettronica, Napoli

2012 - L’Ossola, in Crepaldi, 2012, pp. 394-421

2013A - Tradizioni di pastafrolla, Edizioni Ultravox, Domodossola

2013B - C’era un volta in Ossola: rettili, streghe e uomini selvaggi, in Crepaldi, 2013 

2014 - All’ombra del castello, sotto il manto di Re Lupo, Landexplorer, Domodossola

 

Crepaldi, Silvano (a cura di)

2011 - Geografia dell’immaginario, Lampi di stampa, Milano

2012 - Santi e reliquie, Lampi di stampa, Milano

2013 - Cüntuli dal favlé - Storie dell’Alto e Basso Novarese, Asinochilegge, Novara

 

Grimaldi, Piercarlo

1993 - Il calendario rituale contadino. Il tempo della festa e del lavoro tra tradizione e complessità sociale, Franco Angeli editore, Milano

1996 - Tempi grassi, tempi magri. Percorsi etnografici, Omega, Torino

2012 - Cibo e rito. Il gesto e la parola nel cibo tradizionale, Sellerio, Palermo

 

Parco Valgrande

2012 - Tanti superbi modi di ornarsi - Costumi tradizionali femminili nei comuni del Parco Valgrande, Ente Parco Valgrande, Vogogna

 

Saiu, Battista

2008 - Il vestito della luna - Abiti cerimoniali e quotidiani delle donne piemontesi del III millennio, Circolo Su Nuraghe, Biella

 

Zaccheo, Rosalia

2012 - Indossare il costume oggi, in Parco Valgrande, 2012, pp. 143-145