O come Ossolani.
Un titolo che rimanda all’etnicità, all’appartenenza, le cui foto riconducono inevitabilmente alla tradizione. Donne in costume tipico (e chi se non le donne, portatrici e conservatrici della sapienzialità antica di cui il costume è eponimo?). Una mostra fatta da una giovane, che si autoproclama come viaggiatrice ma che ha in sé un qualcosa di anacronistico.
E non parlo delle foto in bianco e nero, ottenute con un semplice smartphone a cui sono stati applicati i filtri, forse nemmeno sapendo bene cosa c’è tecnicamente dietro la costruzione di una foto e dell’immagine, come appare evidente da alcuni errori di inquadratura e di sovraesposizione. Il problema che si pone è secondo me molto più concettuale. La ragazza, mettendo davanti il bulldozer dell’identità e della tradizione sfruttandolo a livello pubblicitario (ah, il valore aggiunto della tradizione, capace di vendere tutto, dai biscotti alle mostre autocelebrative !) in realtà ha lavorato come il ricercatore ottocentesco, prediligendo la stranezza e la meraviglia.
Ecco quindi la visione delle donne in costume riprese in situazioni fake, creare ad hoc con tanto di sguardo fittizio perso nel vuoto, con Cavagnette portate in maniera errata, frutto di una creazione ancora una volta fake fatta senza conoscenza del fenomeno, senza approfondimento. Una foto pericolosa, che altera e stereotipizza una usanza ancora oggi viva.
Spiace che le donne si siano prestate a questo folklorismo, termine che solitamente non uso preferendo il più neutro fakelore, svalorizzando così il loro ruolo di portatrici e conservatrici del costume, ridotte a modelle nemmeno prezzolate, o peggio di “cavalletti umani”.
Una mostra dalle ottime premesse purtroppo disattese: non è lo sguardo di un’ossolana, non è nemmeno uno sguardo “da lontano”. Non è Scheuermeier, né la Canziani del Gran Tour, ma una sorta di Gericault, con i suoi alienati, o meglio ancora dei freak di Diane Arbus.
Donne e uomini dai volti dove prevale l’aspetto del freak show, la signora sdentata, l’anziano dal volto strano, la donna spettinata e sciatta, contrapposta alle donne, altrettanto strane (se vogliamo) che portano il costume tipico ancora oggi, nel 2020.
Un costume visto come peculiarità e stranezza e non come simbolo identitario. Una deriva pericolosa, non c’è che dire. Perché tra estrema sacralizzazione e sfruttamento turistico del folklore bisogna sempre prediligere la via di mezzo. Il folk, o quello che ne rimane oggi, va fotografato “in natura”, non in uno zoo. Le donne che portano la Cavagnetta vanno osservate in azione, nel loro habitat, non in situazioni creare (male?) artificialmente.
Perché sappiamo tutti come l’opinione pubblica consideri oggi gli animali nei circhi.