La società di lattice

Il libro "La società di lattice - Viaggio di un antropologo urbano nel mondo post Covid-19", scritto a quattro mani con mia moglie, Barbara Visca, si è classificato al decimo posto al premio letterario Città di Castello.

Un instant book, scritto in poche settimane, che ripercorre i grandi cambiamenti del mondo di oggi, visti con gli occhi di un antropologo culturale che arriva in un vero e proprio mondo alieno: la città che conosce è cambiata, profondamente, e deve quasi ricominciare il suo lavoro dall'inizio, come se fosse approdato in una serie tv post apocalittica.

Eccovi in anteprima (il volume uscirà fisicamente tra qualche tempo, speriamo in tempo per Natale!) l'introduzione.

 


Apro gli occhi.
Sono nel mezzo di una stanza vuota.
Mi sveglio in un mondo nuovo.
Qualcosa è cambiato, irrimediabilmente: tutto è stranamente silenzioso, dalla finestra non si vedono macchine e persone, non si sentono i rumori del traffico.
Sbigottimento. Mi rendo conto - quasi subito - che nulla sarà più come prima.

La scena è decisamente familiare: i romanzi horror, i film di fantascienza post- apocalittica, gli anime giapponesi ambientati nel mondo “dopo bomba”, si aprono presentando situazioni simili.
Da fanatico di cultura pop, non posso resistere alla tentazione di citare un esempio su tutti, tratto dalle prime pagine di The walking dead, fumetto di Robert Kirkman da cui deriva l'omonima serie tv. È una scena talmente iconica da costituire per i meno appassionati la sola cosa che si ricordi: il protagonista, eroe solitario, in sella ad un cavallo si avvia verso un’Atlanta spopolata, sopraffatta da un male ignoto e terrificante.
Nel marzo 2020 abbiamo dato un nome a quel male ignoto: pandemia.
Ho dei ricordi molto nitidi.
Al mattino, scopro di trovarmi in una “zona rossa”: i miei spostamenti sono bloccati, le manifestazioni a cui dovrei partecipare come giornalista cancellate, niente mercatino, niente evento sui fumetti. Non posso andare a trovare il mio maestro: non lo so ancora, ma potrò rivederlo solo quattro mesi dopo.
In poche ore, la situazione precipita: l'Italia intera è zona rossa, anzi no, “zona protetta”. Il rosso è un colore di allarme, fa paura. “Zona protetta” rimanda all’atteggiamento di un genitore nei confronti di un figlio da difendere, un figlio bisognoso di cure.
Passano altri due giorni e l’11 marzo, alle 22, tramite una diretta Facebook, la popolazione italiana assiste ad una sorta di dichiarazione di guerra: il premier Giuseppe Conte comunica la chiusura di tutte le attività, salvo quelle di prima necessità. Si deve restare in casa e gli spostamenti sono consentiti solo per motivi di stretta necessità: salute, lavoro, acquisti indispensabili. 

Seguo il comunicato col fiato sospeso. Quello e i successivi. Tanti. Non ho vissuto la guerra, ma immagino che i miei nonni seguissero gli appelli di Radio Londra con lo stesso sgomento, la stessa aspettativa di speranza.
Le canzoni contemporanee a questa fase restituiscono efficacemente il senso di straniamento di chi passa dal caos delle "città che non si fermano" alla quiete irreale dei paesaggi spopolati che osserviamo da dietro le nostre due finestre, quelle della casa e quelle delle dei Tg. Ascolto Living in a ghost town: i Rolling Stones escono dal silenzio degli ultimi anni per tornare sulla scena musicale con una nuova canzone, diventata colonna sonora mondiale della quarantena. Il testo dice tutto della condizione in cui ci siamo ritrovati a vivere, fantasmi dentro città fantasma: Siamo stati tutti rinchiusi/ non vado da nessuna parte/ stai zitto da solo/ così tanto tempo da perdere/ fissando il mio telefono. Ancora una volta, il mondo dell'arte ci mette di fronte al leitmotiv dell’isolamento, delle relazioni umane perdute. Il mondo ci appare (lo ripetono fino alla nausea i mezzi di informazione) come una città metafisica materializzata da un dipinto di De Chirico. O da un film di Romero. Una distopia a cui avevamo pensato molto nella finzione letteraria o cinematografica, ma che non eravamo pronti a vivere nella vita reale, e che ha cambiato profondamente noi stessi e la città in cui viviamo.
Tutto è accaduto in fretta: il 29 gennaio 2020 una coppia di coniugi cinesi di Wuhan in vacanza a Roma viene prelevata dall’hotel Palatino di via Cavour e portata all’ospedale Spallanzani, dove verrà loro diagnosticata una polmonite da Sars-CoV-2, il cosiddetto CoViD-19, ovvero la Malattia da Coronavirus 2019.
L’11 marzo, come già detto, il Presidente del Consiglio fa il suo annuncio. Il 12 marzo, entra in vigore il DPCM (il primo di lunga serie): l’Italia impara un nuovo anglicismo, lockdown, e al lockdown dobbiamo reagire. La comunità subisce una crisi epocale, alla quale si adatta stringendosi e riconfigurandosi come un sistema complesso.
Il mio paese è un esempio rappresentativo di questo fenomeno. 
Si chiama Montecrestese, 1200 anime nel profondo nord del Piemonte, in val d’Ossola: ai tempi del coronavirus, la comunità, seppur fisicamente distante, attiva diverse strategie per combattere l'isolamento e mantenere, seppur nell'emergenza, un senso di unità tra i membri della cittadinanza, grazie all’impegno di amministrazione, Pro loco, Protezione civile e di tutte le associazioni di volontariato. Montecrestese è uno dei primi comuni a distribuire gratuitamente le mascherine ai residenti, a presidiare i negozi di alimentari ed a fornire un servizio porta a porta per gli over 65 (comprensivo sia del pagamento delle bollette, sia della consegna della spesa alimentare). E, non appena superata la primissima fase di difficoltà, legata al reperimento delle introvabili mascherine, si preoccupa di riunire i membri dispersi della sua comunità attraverso la religione, con la distribuzione dell’ulivo benedetto, sempre gratuita e sempre casa per casa: è arrivato il CoViD, ma il mondo non è finito, è sempre la Domenica delle Palme e insieme all’ulivo arriva anche un messaggio del parroco. Penso che perfino gli atei sentano la mancanza della Messa.

Con l’avvento della Fase 2, grazie ad una iniziativa della Pro loco, si tenta di incentivare la ripresa di una delle categorie più danneggiate dalla chiusura forzata: i ristoranti, creano prima una collaborazione tra Pro loco ed attività commerciali, con servizi di consegna a domicilio curati da volontari;  poi una sorta di “raccolta punti” (acquistando nei negozi del paese di ottengono punti da spendere nella festa del paese del prossimo anno) insieme alla più importante sagra del paese, quella della Patata, annullata nel 2020. Anzi, riproposta in nuova e singolare forma, con molti meno volontari.
Arriviamo a fine maggio, la Grande Paura comincia a passare e c’è il tempo di pensare anche ai cittadini più piccoli: su iniziativa dell'Amministrazione gli operai del Comune, elenco alla mano, distribuiscono dolci e cioccolatini ai bambini al di sotto degli undici anni. Montecrestese è solo uno dei tanti casi di comunità ricostruita e rifondata, animata da una potente tensione a ricostruire il proprio corpo sociale, amputato dalla forza disgregatrice del "nemico invisibile"; una società che sta re-imparando da zero a utilizzare nuovamente il proprio corpo. E lo fa in senso letterale: niente stretta di mano, ma un piccolo tocco “di gomito”; niente sorrisi, perché coperti dalla mascherina.
Con l’avvento della cosiddetta Fase 2, dopo un paio di mesi, possiamo uscire di nuovo. Ma il mondo che ci ha accolto è profondamente modificato.
Il paragone più immediato, anche se un po’ forte, è quello con il dopo 11 settembre: anche allora, di fronte alle terribili sequenze degli aerei schiantati contro i grattacieli, si disse che sembrava di trovarsi in un film. Con una frase da film, allora come oggi, viene da dire che “niente sarà più lo stesso”. Ma in che modo?
In primis, nei rapporti interpersonali, dalla mimica facciale alle piccole interazioni quotidiane, profondamente alterate dal non potersi più toccare. Come dice il filosofo Zizek: «Le mani non possono raggiungere l’altra persona, soltanto dall’interno possiamo avvicinarci gli uni agli altri – e la finestra a cui si affaccia la nostra “interiorità” sono gli occhi».
Ecco che noi antropologi ci ritroviamo a districarci in una profonda alterità, pur restando a casa nostra. Chilometri di distanza simbolica intercorrono tra il prima ed il dopo pandemia, e lo si può notare proprio nei luoghi di maggiore socialità: bar, ristoranti, luoghi di culto diventano ritrovi atipici, il tempio in rovina di una ritualità distrutta. Le mascherine interferiscono con l’interazione sociale, oscurando la mimica facciale. Le mani non sono più il primo contatto che abbiamo con l’altro, diventano una parte del corpo “impura”, da evitare, coprire, o purificare (anche simbolicamente) attraverso costanti pratiche di igienizzazione. Gli spazi interni ed esterni all’abitazione si modificano: se dentro le case i più scrupolosi fanno spazio al ripiano per appoggiare le mascherine lavabili, all’ingresso dei luoghi pubblici compaiono distributori di disinfettanti e cartelli che intimano al distanziamento interpersonale di almeno un metro. Nel nostro linguaggio abituale hanno messo radici infiniti termini nuovi, riservati in precedenza ai più qualificati professionisti del settore medico-scientifico ed oggi usati con disinvoltura perfino dalla proverbiale casalinga di Voghera: “asintomatico”, “tampone naso-faringeo”, “esame sierologico”, “curva del contagio”, “DPI, ovvero Dispositivi di protezione individuale ovvero le mascherine e i guanti in lattice”. Mascherine e guanti, ormai familiari quanto sciarpa e cappello in una giornata invernale.
Il lattice mi ha richiamato alla memoria un’altra pandemia, quella dell’AIDS.
Anche allora, negli anni Novanta, tra polemiche scandalizzate e memorabili campagne informative, si invitavano le categorie più a rischio ad utilizzare un dispositivo in lattice: il preservativo.
L’epidemia di AIDS molto ha in comune con il CoViD-19, pur non avendo avuto le stesse conseguenze su scala mondiale: se da un lato l’HIV ha standardizzato e modificato i comportamenti sessuali più disinibiti, al grido di “se lo conosci lo eviti”, l’attuale pandemia ha resettato completamente la società nella sua interezza, senza essere relegata ad una sola categoria sociale (che nel caso dell’AIDS spesso sconfinava nella “devianza”, tra drogati ed omosessuali). Effettuare un’analisi comparativa tra la “peste dei gay” ed il “virus dei cinesi” è uno spunto suggestivo, che non mi è possibile sviluppare in questa sede.
Ho scelto, più semplicemente, di obbedire ad un’urgenza: mettere in ordine gli eventi che ci hanno colpito in questi ultimi mesi e cercare di leggerli con gli strumenti dell’antropologia.
Per farlo, sono partito dalla città: non una città reale, ma La Città, con i suoi luoghi simbolo, i suoi imprescindibili punti di riferimento, ascoltando ciò che hanno da raccontare.

Apro gli occhi.
Mi sveglio in un mondo nuovo.
Qualcosa è cambiato, irrimediabilmente.
Sbigottimento. Mi rendo conto - quasi subito - che nulla sarà più come prima.
Non sono un poliziotto preparato agli imprevisti, pistola al fianco. Non sono un seguace della Sacra Scuola di Hokuto.
Sono un antropologo.
Prendo il mio taccuino per gli appunti, i miei maestri di riferimento, i miei anni di studio, ed inizio a vagare per la città cercando di dare un senso a ciò che vedo.

Purtroppo sto ancora cercando il cavallo…