Non si butta via niente! (anteprima)

Eccovi in anteprima il mio saggio sul ruolo della donna come "riciclatrice" del sapere. O meglio, "Il ruolo della donna nel recupero dei beni materiali e immateriali".

Lo trovate sul libro si Silvano Crepaldi, "La metà imperfetta", che verrà presentato a Novara il prossimo 19 dicembre.

 

a. La donna ed il suo ruolo di “recupero” dei beni materiali e immateriali. Il ruolo della donna, tradizionalmente, è sempre stato molto complesso, soprattutto nel territorio del Vco. Erano le donne, ad esempio, quelle che si occupavano di tramandare le tradizioni, erano le “depositarie” del mantenimento dei saperi, soprattutto quello “magico” e religioso. 

Questo aspetto di mantenimento risulta particolarmente evidente in ambito culinario: sono le donne che si occupano del “riciclo” degli avanzi, del loro riutilizzo, spesso unendovi una abilità manuale che ne conferisce un valore aggiunto, ancora oggi “spendibile” in campo turistico ed enogastronomico.

La donna assume quindi il ruolo di trait d'union tra passato e futuro, tra tradizione ed innovazione. 

La logica che sta alla base di questo lavoro, se vogliamo, è quella del “non si butta via niente”: in una economia tendenzialmente povera - come quella tradizionale dell'agricoltura montana - non era consentito buttare via gli “avanzi” e soprattutto quelli di cibo. Ma il discorso, naturalmente, può essere allargato ad altri ambiti: al cosiddetto bricolage contadino, che serviva a non buttare via le falci spuntate ma a conservarle per essere trasformate, ad esempio, in coltelli e dar loro nuova vita (Grimaldi, 1998). Lo stesso avveniva per molti altri oggetti di uso comune; nei rari casi in cui si doveva buttare un paio di scarpe piuttosto che di pantaloni, un tempo - ma l'usanza è viva ancora oggi – le donne “salvavano il salvabile”, cioè toglievano tutte le parti che potevano essere recuperate: dai bottoni alle zip ai lacci. 

Ma la cosa che colpisce di più e che, per il ricercatore, riveste maggior interesse, è che la tendenza femminile al “riuso” si è estesa anche al campo delle tradizioni, in una singolare ri-creatività che mischia tradizione ed innovazione. Gli antichi saperi erboristici precristiani, giusto per fare un esempio, sono stati salvati da donne che, nonostante abbiano subìto in periodo medievale una stigmatizzazione sociale, che le ha emarginate bollandole come streghe e incarnazione del male, sono riuscite a loro volta a rientrare nella comunità attraverso la ritualizzazione “cristiana” della raccolta e benedizione delle erbe. Analogo discorso si può fare per i culti precristiani di matrice vegetale, reinseriti nella liturgia e che rischiavano, anche recentemente, di finire nella “discarica” ed essere dimenticati. Grazie all'impegno (o ingegno?) femminile, certi riti ed usanze non solo si sono salvate ma addirittura si sono rafforzate, tornando a livelli di partecipazione paragonabili a quelli del secolo scorso.


b. Le druidesse ovvero il recupero della sapienzialità antica. Che le donne fossero, quantomeno nell'immaginario folklorico, correlate a saperi magico-medicamentosi è facilmente riscontrabile anche nello studio dell'immaginario leggendario ossolano (Ciurleo, 2005). Le cosiddette fate bianche, per esempio, diffuse in area montana - prevalentemente nei boschi ed ambienti incontaminati - altro non erano, secondo diversi studi, che le eredi delle antiche druidesse. Analogo discorso può essere fatto sulla figura, spesso ambigua, della fata/strega: si tratta di figure prevalentemente negative - l'equazione strega: brutta e cattiva, fata: bella e buona, è spesso fallace, almeno analizzando il folklore ossolano - ma che rappresentano le depositarie degli antichi saperi, delle ritualità perdute piuttosto che delle conoscenze erboristiche.

Erano infatti le streghe e le fate che si occupavano di curare i casi più gravi: solo loro sapevano cosa utilizzare in caso di avvelenamento; solo loro sapevano mischiare gli ingredienti e le erbe dell'orto per preparare decotti e pozioni. È cosa nota che in alcune località delle Alpi si coltivasse il papavero da oppio e che con questo si preparassero dei decotti che venivano somministrati ai bambini. Oppure l'erba ruta, che poteva, a seconda del dosaggio, “scacciare i vermi” o essere utilizzata come rimedio abortivo.

Anche in ambito cristiano erano le donne che si occupavano della raccolta delle erbe magiche, specie nella notte di san Giovanni, periodo ritualmente molto importante perché a ridosso del solstizio d'estate e dell'inizio della bella stagione. Si tratta, anche in questo caso, di una interessante permanenza che sottintende una sessualizzazione di alcuni ambiti rituali molto importanti. Molto spesso, nel territorio ossolano, si assiste ancora oggi ad una divisione sessuale all'interno delle chiese, con le donne che si dispongono nei primi banchi, insieme ai bambini, mentre gli uomini occupano gli ultimi posti, quando non addirittura in piedi in fondo – a volte all'esterno - dell'edificio di culto. 

Dalle interviste emerge, salvo rari casi, che l'educazione religiosa dei figli era affidata alle donne (Ciurleo, 2010; Ciurleo, 2014). Per non parlare delle attività di tanatoprassi, ovvero di cura e vestizione del cadavere e della sua veglia.  Più testimonianze concordano sul fatto che, ancora negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, il compito di vestire i cadaveri era affidato prevalentemente alle donne (Ciurleo, 2010).


c. Polpette e torte di credenza: il ruolo della donna nel recupero alimentare. La donna, come “regina del focolare”, era colei a cui erano demandati i compiti di economia domestica: pulizia della casa e, soprattutto, preparazione dei cibi. Un classico stereotipo anche se non è questa la sede opportuna per aprire un dibattito sulla sessualizzazione dei ruoli e sulle modificazioni avvenute nel corso del tempo. Quello su cui vorrei riflettere è invece la peculiarità, tutta femminile, di recupero sistematico degli avanzi, in un perfetto lavoro di rielaborazione a cui si aggiunge il “valore aggiunto” della manualità. Mi spiego meglio: consideriamo il caso tipico dei raviolini, dei plin, specialità piemontese apprezzata in tutta Italia e non solo. Si tratta di un particolare tipo di agnolotto - altro prodotto tipico della tradizione piemontese - il cui ripieno è composto, prevalentemente, da avanzi di carne. La peculiarità e data dalla sua forma molto piccola: grazie alla manualità, al tempo necessario per realizzare ogni singolo raviolino, la donna, si può dire, “sopperisce” alla povertà degli ingredienti.
Proprio questa manualità diviene particolarmente importante oggigiorno e si configura come un vero e proprio valore aggiunto, spendibile anche nel campo della ristorazione. 

Valga, ad esempio, il caso, secondo me emblematico, della “Sagra della patata” di Montecrestese (Ciurleo, 2007), dove un vero e proprio esercito di donne lavora per preparare, ogni anno, in soli quattro giorni di festa, migliaia di porzioni di gnocchi. Gnocchi che sono diventati richiamo per i visitatori provenienti da Piemonte, Svizzera e Lombardia: grazie anche ad una raffinata operazione di marketing si è puntato sui concetti di “tradizione”, “antichità della ricetta” e “sapienzialità/manualità casalinga”. Un aneddoto: proprio gli studi condotti per giungere al conferimento agli gnocchi di patate della certificazione DeCo - Denominazione Comunale - hanno fatto emergere da un lato che la ricetta è tramandata oralmente (bisogna infatti conoscere l’esatta consistenza dell’impasto, che può variare a seconda della tipologia di patate utilizzate piuttosto che stabilire un rapporto fisso tra patate e farina), dall’altro che la preparazione casalinga degli gnocchi, che sembra venissero preparati anche per smaltire le patate “vecchie” - e qui ritorna il discorso della donna come principale artefice del recupero alimentare - è diventata sempre più rara.

La considerazione generale che va fatta perchè più che mai attuale - ancora oggi diverse tonnellate di alimenti vengono quotidianamente buttati a causa di piccoli difetti estetici che li rendono poco appetibili per la vendita - è quella secondo cui  gettare il cibo è peccato, vuoi per le contingenze economiche, vuoi anche per aspetti rituali sottostanti. In particolare, da sempre, era “tabu” buttare via il pane, soprattutto per la simbologia e sacralità dell’alimento. 

Se esaminiamo le ricette tradizionali, troviamo un’ampia gamma di preparazioni che si basano sull’uso del pane raffermo: dai canederli trentini ai passatelli, senza dimenticare le varie torte a base di latte - che serviva per ammollare le michette indurite - ed “avanzi di credenza” (Ciurleo, 2013B).


d. Il recupero della tradizione: case study. Le donne hanno avuto anche un ruolo fondamentale nel campo delle tradizioni, soprattutto religiose. A tal proposito ritengo interessante citare il caso della rinascita delle cavagnette a Trontano.

A Trontano c'è l'usanza di portare in processione, in occasione della festa patronale della Madonna e di San Leonardo - rispettivamente la prima domenica di agosto e la seconda di novembre - le cavagnette, che sono degli alberi rituali particolarmente diffusi sul territorio ossolano. Si tratta di un elemento vegetale alberiforme adornato con fiori, monili, reliquie - più precisamente immagini sacre - e coccarde, radicato in un cesto, che viene portato al momento dell'Offertorio e poi in processione, in origine solo dalle ragazze in età da marito (Ciurleo, 2012; Crepaldi, 2012). 

Ho intrapreso la ricerca su questa complessa realtà rituale nel 2008: in quell'occasione vennero portate, da uno sparuto gruppo di donne, tutte di età piuttosto avanzata, tre cavagnette. Ve n'era anche una quarta, molto antica, che non fu portata in processione. La tradizione, oggettivamente, sembrava stesse per morire a causa soprattutto di un ricambio generazionale che sembrava essersi interrotto. Iniziò così, grazie all'interesse suscitato anche in ambito accademico da questo fenomeno degli alberi rituali ossolani - molto diversi da quelli diffusi in altre località del Piemonte - e all'intervento del gruppo “Folk e Tradizioni” guidato da Rosalia Zaccheo, una vera e propria sistematica riscoperta del rito, con risultati a dir poco sorprendenti. Nel giro di pochissimi anni si è assistito ad un'importantissima opera di recupero e valorizzazione, dapprima con il restauro delle cavagnette antiche e poi con la creazione di nuovi oggetti rituali. More solito la “sapienzialità” o, se vogliamo, la “direzione artistica” è stata esclusivamente femminile: è stata una donna a fornire il modello costruttivo entro cui inserire le variazioni del caso; è stata una donna ad occuparsi del reperimento dei materiali; è stata una donna a coinvolgere le altre ed insegnar loro il corretto modo per portarle. 

Già perché portare la cavagnetta, a Trontano, non significa solamente poggiarla e mantenerla in equilibrio sulla testa. Nel corso di pochi anni si è riusciti a riportare la festa ad una versione - seppur inevitabilmente aggiornata agli standard sociali del XXI secolo - sostanzialmente molto simile a quella originale. Si è assistito così ad un importante ringiovanimento delle “portatrici”, che sono tornate ad essere, anagraficamente, le “ragazze da marito”, come testimoniato simbolicamente dall'uso di un fazzoletto piegato e posizionato tra i capelli ed il fondo del cesto. Nell'agosto di quest'anno sono state portate in processione una decina di cavagnette, accompagnate ognuna da due donne - che si occupano di tenere distesi i lembi anteriori della gonna per evitare che la “portatrice” inciampi - per un totale di oltre trenta donne in costume, tra queste molte ragazze sotto i vent'anni. 

Il caso di Trontano è senza dubbio emblematico ma non è unico in Ossola. Nell'ultimo quinquennio si è assistito ad un vero e proprio revival delle cavagnette e del folklore legato agli alberi rituali. Ad esempio a Viganella dove, dopo diversi lustri, si sono costruite nuove cavagnette oppure a Cravegna, frazione di Croveo, dove nel 2012, dopo quasi mezzo secolo di interruzione, è ripresa l'uscita delle corbelle, portate da un nutrito gruppo di fanciulle biancovestite.


e. Il costume femminile. Come è noto, il “costume” era di fondamentale importanza per la comunità: il “vestito della festa”, che accompagnava le donne dalla culla – o, meglio, dal matrimonio - alla bara era un simbolo di appartenenza. Il costume, infatti, era diverso a seconda del paese di provenienza e le differenze, in particolare nel caso ossolano, stavano nei particolari. Il foulard piuttosto che l'allacciatura del panèt e l'acconciatura dei capelli - ad esempio le trecce, quazz, in uso a Vogogna (Ciurleo, 2014) - piuttosto che il ricamo sul petto o i diversi colori erano simboli caratterizzanti una comunità. 

Il costume tipico, così come ci è stato consegnato, è un chiaro retaggio del XIX secolo, quando la moda borghese cittadina, che prediligeva colori scuri quali il nero o il viola, si impose anche in ambito montano (Saiu, 2008) e, di conseguenza, in Ossola.

Sono state proprio le donne le ultime ad abbandonare l'uso del costume, in anni anche relativamente recenti: gli uomini si conformarono ben presto alla cosiddetta “divisa borghese”, con pantaloni a sigaretta e cravatta che annullavano i richiami alla sessualità (MacLaren, 1999). E, allo stesso modo, sono state proprio le donne, in anni ancora più recenti, a recuperarne l'uso in ambito folk, talvolta codificandone gli elementi. 

L'uso del costume in tempi recenti è testimoniato ad esempio a Luzzogno, in Val Strona, dallo studio condotto da Battista Saiu, che ha fotografato, ancora pochi anni fa, donne che lo indossavano quotidianamente (Saiu, 2008).

In Ossola l'uso del costume è oggi limitato alle feste che rivestono una qualche matrice folk, in primis la patronale. Ma fino agli anni '50 del secolo scorso non era così - e nei paesi montani quali Cravegna addirittura fino agli anni '70 / '80 – e le donne portavano ancora il costume tipico. Testimonianza di questo si può avere da un semplice giro nei cimiteri e dall'osservazione delle foto delle defunte: almeno fino a metà del XX secolo esse indossavano elementi del vestito tradizionale, in particolare i copricapi ed i foulard. E poiché molte si facevano seppellire in costume, è difficile trovare oggi abiti tradizionali originali. In ogni caso le donne, che, come detto, hanno abbandonato per ultime il tipico abito festivo, sono state le prime a recuperarlo, facendo così nascere vari gruppi folkloristici.

L'Ossola risulta particolarmente ricca di queste associazioni, prevalentemente al femminile. Una parte, ad esempio, si è associata al gruppo più vasto de “Le donne del Parco”, che riunisce le varie formazioni delle comunità inserite nel Parco Nazionale della Valgrande. Ancora in questi anni sono nate nuove associazioni che si sono occupate di codificare – e, al limite, reinventare - il costume tipico di un Comune; cito, ad esempio, il gruppo “I takar” di Montecrestese, nato da pochi anni e composto prevalentemente da giovani, tra cui, caso piuttosto singolare, anche molti maschi.

Un'opera di riscoperta del proprio passato, certamente, ma anche di riappaesamento, un tentativo cioè di costruzione - o ricostruzione - di una propria identità, che passi attraverso il ritorno a simbologie del passato, in una sorta di folk-revival.
È molto bello assistere, ad esempio, alla festa dei Santi Gervasio e Protasio, patroni di Domodossola, e vedere sfilare, come accaduto quest'anno, centinaia di donne in costume, divise in gruppi a seconda del paese o dell'associazione di provenienza, precedute da uno stendardo didascalico, che sottolineava - ma un tempo non sarebbe stato necessario - l'individualità del gruppo e naturalmente l'affermazione identitaria in contrasto con l’alterità.

Quella di indossare il costume è una problematica che va affrontata con una certa lucidità: tralasciamo il quesito, che sa molto di filosofia spiccia, se sia nata prima la codificazione del costume o l’usanza per cui le donne lo indossano. Soffermiamoci su un altro aspetto, ovvero sul significato di portare il costume oggi. Come spiega Rosalia Zaccheo «portare i costumi è per noi un gesto di recupero della memoria del territorio, è il modo per esprimere la nostra orgogliosa appartenenza ad esso e sottolineare il nostro ruolo femminile di conservazione della tradizione» (Zaccheo, 2012).

Una presa di posizione molto forte, che pone l'accento sulla differenza che intercorre tra folklore e folklorismo o, meglio, tra folk e fake (Ciurleo, 2013b). 

Si può dire che oggi esistano almeno due linee filosofiche riguardo l'utilizzo del costume. Da una parte troviamo la frangia conservatrice, che “sacralizza” l'abito o, se vogliamo, vede il costume come un oggetto rituale, che deve essere utilizzato solo in determinate occasioni; dall'altra una visione più “esibizionista”, che vede il vestito come un valore aggiunto “spendibile” anche in ambito turistico. Ecco quindi che le “uscite” dei vari gruppi e la loro partecipazione agli eventi performativi possono essere una valida cartina di tornasole per scoprire la filosofia del gruppo e la concezione del vestito. Se vogliamo estremizzare le due scuole di pensiero, da una parte troviamo l'abito/feticcio usato solo in occasioni “sacre”, dall'altro l'abito/travestimento, utilizzabile anche a fini turistici o carnevaleschi. Esporsi a giudicare quale sia la strada migliore è molto difficile. Se da una parte, infatti, “l’integralismo” consente, quando funziona, di preservare l’apparato folk, dall’altro questa chiusura rischia di “fossilizzare” e standardizzare ancora di più gli abiti tradizionali, che, invece, facendo parte di una cultura viva, possono - e mi permetterei di dire devono - modificarsi in risposta alla contemporaneità.

Il secondo atteggiamento, da una lato ha certamente il vantaggio di mantenere vivo l’uso del costume e di riproporlo come simbolo di aggregazione, ma dall’altro rischia di snaturarlo drasticamente. Viviamo in un mondo dove l’usanza del “vestito della domenica” si è persa - in molti casi il week end è proprio l’occasione per mettersi in libertà, vestendosi con bruttissime ma comode tute, quasi in risposta all’abbigliamento giacca e cravatta o tailleur che si indossa per lavoro - e sarebbe forse il caso di mantenere l’uso del vestito tradizionale limitato a poche occasioni durante l’anno, di forte valenza rituale e simbolica: sì alla festa patronale, no al ballo in maschera o alla sfilata carnevalesca.


f. Conclusioni. All’interno del cosiddetto “gioco della tradizione” la donna assume quindi un ruolo fondamentale, in Ossola come in altre realtà contadine ed alpine, svolgendo un’importantissima opera di “recupero” e di salvataggio. Ed il recupero, come visto, può essere quello del polpettone, che salva dalla “spazzatura” un arrosto troppo grande - e magari non esattamente di prima qualità - piuttosto che i bottoni di un vecchio cappotto logoro.

L’immagine dei bottoni penso sia la migliore metafora di quanto fatto dalla donna nell’ambito delle tradizioni, soprattutto religiose, o più semplicemente nel folk: si salvano elementi, anche marginali, di una ritualità e si trapiantano su un’altra struttura, magari modificandola e trasformandola. Se infatti il bottone del cappotto può sostituire quello di una mantella - ma può anche diventare parte di una collana o oggetto ornamentale - il nostro “bottone della tradizione” può a sua volta assumere nuovi usi senza perderne le caratteristiche peculiari. E trasformarsi da momento in cui le ragazze “da marito” di mostravano alla comunità, ponendosi sul mercato matrimoniale, a (forte) rito di riappropriazione identitaria (Trontano docet).