La Calcavegia di Piedimulera

La “Calcavegia” di Piedimulera

Anche a Piedimulera si svolge un analogo evento: il falò della “Calcavegia”. Fino al 1979, infatti, si trovano tracce di un fuoco che ardeva a Piedimulera, in cui venivano bruciati dei pupazzi, definito “Calcavegia”; l'usanza è poi stata presa in mano dal gruppo degli Amici in piazza ed è diventato un appuntamento immancabile di inizio anno.

Il termine, che secondo Fritz Gysling viene associato al termine incubo, ricalca fedelmente l’etimologia della Carcavegia, e rimanda al bruciare la vegia (queste etimologia viene riportata da Scarfò 1988, p. 4). 

Esiste però una fortissima differenza con la Carcavegia premosellese: i fantocci non sono “personalizzati”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un pupazzo, che però in origine non presentava alcuna fisionomia. Come precisa Scarfò, solo a partire dal secondo dopoguerra, «con il nuovo spirito democratico instauratosi alla fine del conflitto in virtù del nuovo ordinamento politico e sociale» (Scarfò, 1988. p. 5), la vegia assume una fisionomia ben precisa, ovvero quella di qualche «personaggio importante caduto in disgrazia o comunque resosi impopolare per un motivo socialmente importante» (Scarfò, 1988, p. 5).

La leggenda di fondazione di questo evento folklorico è analoga a quella di Premosello, e vede come protagonisti i Re Magi che, chiedono la strada per recarsi a Betlemme in adorazione del Bambin Gesù ad un’anziana, che, però, indica loro la strada sbagliata. I Magi, così, accortisi dell’errore della vecchia, tornano indietro e bruciano la donna e la sua abitazione (La leggenda viene originariamente narrata da Enrico Rizzi e riportata in Scarfò, 1988, p. 5).

Analogamente a Premosello anche in questo caso assistiamo ad una vera e propria ciabra notturna, ovvero un rumore molesto che avviene nottetempo con fini di sanzione sociale, in cui viene suonata una «specie di musica ostrogota a strumenti poco armonici che sono i corni e le cassette da petrolio» (L’Ossola, n 2, 13 gennaio 1900, cit in Scarfò, 1988, p. 4). Non è però attestata la presenza di una questua, e purtroppo le fonti non ci indicano chi siano gli attori rituali di questo evento.

Le spiegazioni che ci vengono fornite da Scarfò, che riporta interpretazioni emiche dell’evento, ovvero quelle dei “nativi”, rimandano a due chiarimenti: un falò di fine anno che ha lo scopo di «bruciare i malanni, le vecchie rampogne, le malefatte della natura e degli uomini, successe durante l’anno appena finito» oppure un fuoco che ha il valore di una «festosa e rumorosa conclusione di tutte le festività iniziate con la vigilia del Santo Natale» (Scarfò, 1988, pp. 4-5).

Personalmente tenderei ad accreditare maggiormente la seconda ipotesi, poiché i culti relativi al fuoco, associato ad una forza divina a causa anche delle sue alte lingue che collegano cielo e terra, e quindi Dio e uomo,sono da sempre stati oggetti di culto in molte popolazioni. Inoltre, anche il periodo in cui si svolgeva questa manifestazione, ovvero quello di carnevale, rimanda ai “tempi grassi” ed ai riti di inizio anno per agevolare la venuta della bella stagione e della primavera. 

Da quanto ci ha lasciato scritto Scarfò vi fu un “Rogo” della “Vegia” nel 1952. La tradizione riprenderà il 6 gennaio del 1970, quando il Gruppo Giovani “Saslero” allestisce nell’omonima località lo spettacolare rogo. In quel decennio la festa assunse carattere annuale, per poi interrompersi nel 1982, a causa della siccità e del conseguente pericolo d’incendi. L’anno seguente il falò della Calcavegia si “estingue”, poiché l’area prativa dove veniva allestito il falò viene edificata (Scarfò, 1988, p. 83). 

Anche questa tradizione, come una sorta di araba fenice, è risorta dalle sue stessi ceneri con la nascita dell’associazione “Amici in Piazza”, che da ormai quasi vent’anni anni, la sera del 6 gennaio, ha ripristinato l’antica usanza di “bruciare la vecchia”. Adesso il fantoccio, che rappresenta la befana-l’anno vecchio, viene arso sulle rive del torrente Anza. 

Si tratta di un esempio particolarmente significativo di quanto le feste siano delicate e di come basti rompere uno dei fragilissimi anelli della catena della tradizione per vedere definitivamente scomparire un evento folklorico.

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