Il Carnevale di Piedimulera (p. III)

Piedimulera: Calcavegia, Tadeo e Pinota, Gran Can

Il falò della “Carcavegia” che si svolge ogni anno, la sera del 5 gennaio a Premosello e Colloro, è senza dubbio uno degli eventi folcklorici più importanti del territorio ossolano (cfr Ciurleo, 2007, pp. 88-101; Ciurleo, 2012). Forse non tutti sanno, però, che anche a Piedimulera, si svolge un analogo evento: il falò della “Calcavegia”. Fino al 1979, infatti, si trovano tracce di un fuoco che ardeva a Piedimulera, in cui venivano bruciati dei pupazzi, definito “Calcavegia”. Anche in questo evento folklorico ci troviamo di fronte ad una «antica costumanza di festeggiare la sera dell’Epifania col consueto baccano» (L’Ossola, n. 2, 13 gennaio 1900, cit in Scarfò, 1988, p. 4).

Il termine, che secondo Fritz Gysling viene associato al termine incubo, ricalca fedelmente l’etimologia della Carcavegia, e rimanda al bruciare la vegia (Quest’etimologia viene riportata da Scarfò, 1988, p. 4). 

Esiste però una fortissima differenza con la Carcavegia premosellese: i fantocci non sono “personalizzati”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un pupazzo, che però in origine non presentava alcuna fisionomia. Come precisa Scarfò, solo a partire dal secondo dopoguerra, «con il nuovo spirito democratico instauratosi alla fine del conflitto in virtù del nuovo ordinamento politico e sociale» (Scarfò, 1998, p. 5), la vegia assume una fisionomia ben precisa, ovvero quella di qualche «personaggio importante caduto in disgrazia o comunque resosi impopolare per un motivo socialmente importante» (Scarfò, 1998, p. 5).

La leggenda di fondazione di questo evento folklorico è analoga a quella di Premosello, e vede come protagonisti i Re Magi che, chiedono la strada per recarsi a Betlemme in adorazione del Bambin Gesù ad un’anziana, che, però, indica loro la strada sbagliata. I Magi, così, accortisi dell’errore della vecchia, tornano indietro e bruciano la donna e la sua abitazione.

Analogamente a Premosello anche in questo caso assistiamo ad una vera e propria ciabra notturna, ovvero un rumore molesto che avviene nottetempo con fini di sanzione sociale, in cui viene suonata una «specie di musica ostrogota a strumenti poco armonici che sono i corni e le cassette da petrolio». Non è però attestata la presenza di una questua, e purtroppo le fonti non ci indicano chi fossero storicamente gli attori rituali di questo evento (Scarfò, 1998, pp. 3-5). La festa di Premosello, senza dubbio, si presenta molto più strutturata dal punto di vista rituale: ci sono infatti numerosi significati iniziatici e tipicamente sessuali dietro a questo evento.

Le spiegazioni che ci vengono fornite da Scarfò, che riporta interpretazioni emiche dell’evento, ovvero quelle dei “nativi”, rimandano a due chiarimenti: un falò di fine anno che ha lo scopo di «bruciare i malanni, le vecchie rampogne, le malefatte della natura e degli uomini, successe durante l’anno appena finito» (Scarfò, 1998, p. 4) oppure un fuoco che ha il valore di una «festosa e rumorosa conclusione di tutte le festività iniziate con la vigilia del Santo Natale» (Scarfò, 1998, p. 5).

Personalmente tenderei ad accreditare maggiormente la seconda ipotesi, poiché i culti relativi al fuoco, associato ad una forza divina a causa anche delle sue alte lingue che collegano cielo e terra, e quindi Dio e uomo,sono da sempre stati oggetti di culto in molte popolazioni. Inoltre, anche il periodo in cui si svolgeva questa manifestazione, ovvero quello di carnevale, rimanda ai “tempi grassi” ed ai riti di inizio anno per agevolare la venuta della bella stagione e della primavera. 

Da quanto ci ha lasciato scritto Scarfò vi fu un “Rogo” della “Vegia” nel 1952. La tradizione riprenderà il 6 gennaio del 1970, quando il Gruppo Giovani “Saslero” allestisce nell’omonima località lo spettacolare rogo. In quel decennio la festa assunse carattere annuale, per poi interrompersi nel 1982, a causa della siccità e del conseguente pericolo d’incendi. L’anno seguente il falò della Calcavegia si “estingue”, poiché l’area prativa dove veniva allestito il falò viene edificata (Scarfò 1998, p. 83). 

Anche questa tradizione, come una sorta di araba fenice, è risorta dalle sue stessi ceneri con la nascita dell’associazione “Amici in Piazza”, che da diversi anni, la sera del 6 gennaio, ha ripristinato l’antica usanza di “bruciare la vecchia”. Adesso il fantoccio, che rappresenta la befana-l’anno vecchio, viene arso sulle rive del torrente Anza. 

Si tratta di un esempio particolarmente significativo di quanto le feste siano delicate e di come basti rompere uno dei fragilissimi anelli della catena della tradizione per vedere definitivamente scomparire un evento folcklorico.

Tra le attività Carnevalesche che hanno contraddistinto il carnevale piedimulerese c’è senza dubbio la commedia “Viaggio di nozze in 7”, che ha dato origine a due maschere di particolare importanza: Tadeo e Pinota.

Lo studio di quest’opera di fantasia permette di riflettere su alcuni aspetti di particolare importanza: l’azione degli stereotipi nella formazione della conoscenza, tanto degli alloctoni quanto degli autoctoni; la concezione della realtà urbana in Ossola; la “costruzione” di maschere tipiche, fenomeno che osserveremo più attentamente nei paragrafi seguenti, parlando del Tabui e del Gran Can. 

Iniziamo proprio dalla costruzione di stereotipi. Risulta evidente, dalle ricerche condotte sul territorio, che, in Ossola, si assistette sempre ad una forte opposizione tra i diversi paesi limitrofi. Il grande etnocentrismo ossolano risulta infatti particolarmente evidente quando si analizza l’apparato folcklorico (Cfr Ciurleo, 2005), sia quando si analizzano le cosiddette “ingiurie topiche”. La commedia venne scritta nel 1936, dal segretario comunale di allora, Mario Ferraris, e venne allestita da Dario Raffini. Gli attori di questa performance teatrale erano Luigi Piralla (Tadeo), Anna Rolandi (Pinota), Alberto Pezzoli (sindaco di Tappia), Eugenia Pirazzi (Catrina, una popolana), Dionigi Bassi (un ragazzo), Aldo Ghinzoni (guardia comunale) e Mario Fornetti (oste e cameriere) (Scarfò, 1988, pp. 11-12).

La trama è molto semplice: Tadeo e Pinota sono una coppia di giovani sposi originari del paesino di Tappia, una frazione di Villadossola, che si recano in viaggio di nozze, in compagnia di una sgangherata combriccola di paesani, a Piedimulera (Scarfò, 1988, pp. 11-12; 61-63). Questi sposini, descritti come due «paesanotti e sprovveduti […] fanno il loro viaggio di nozze a Piedimulera, ove si imbattono in una serie di avventure e sorprese multiple che possono succedere a due contadinotti ignoranti che vanno per la prima volta in una grande e tentacolare città» (Scarfò, 1988, p. 67). Le due maschere non sono associate ad una iconografia ben precisa e standardizzata nel corso del tempo: non si è, cioè, assistito ad una codifica del costume. Dalle notizie riportate da Scarfò, probabilmente, i costumi delle due maschere dovevano avere una foggia particolare ma, a causa della mancanza di fondi, ci si accontentava degli abiti che si avevano a disposizione.

Bisogna subito notare che, nel folcklore ossolano, gli abitanti di Tappia venivano considerati contadinotti ingenui e stupidotti, tanto è vero che il termine tapiöl, letteralmente “abitante di Tappia”, indica un babbeo. Il termine, come spiega Sebastiano Ferraris, deriva dal proverbio “I tapiöi san nianca da dua nascin i soi fiöi”, ovvero che gli abitanti di Tappia sono talmente ingenui da non sapere nemmeno da dove nascono i loro figli (Ferraris, 1997, pp. 109-110).

Lo sviluppo della trama rivela subito che i più “svegli” abitanti di Piedimulera non esitano a farsi beffa dei poveri sette contadinotti sprovveduti, subissandoli di sberleffi e truffe. Questo ci permette di capire come gli autoctoni, ovvero i piedimuleresi, si sentissero particolarmente superiori nei confronti degli alloctoni, ovvero gli abitanti di Tappia, e come non esitino a farne della facile ironia sui loro comportamenti. Si assiste, sotto molti aspetti, a quello che accade in Francia, dove i Belgi sono vittime di barzellette ed eponimo di stoltezza.

Il secondo spunto di riflessione riguarda invece il dibattito sulle città alpine in Ossola. Può apparentemente sembrare una tematica aliena al Carnevale ed alla commedia Viaggio di Nozze in 7, ma invece lo studio di questo testo ci permette di trarre delle importanti conclusioni. Ma procediamo con ordine. 

Il problema che si pone all’attenzione è se Domodossola, che può a pieno titolo considerarsi una città alpina, come ho avuto modo di dimostrare in altri lavori (Ciurleo, 2007, pp. 42-44), è l’unica realtà urbana in Ossola. Ma, soprattutto, Piedimulera è una città alpina? Se utilizziamo le definizioni di Luigi Gaido, il comune preso in esame non rientrerebbe nella definizione, perché, pur essendo situato sia all’interno dei confini geomorfologici della catena alpina, il suo numero di abitanti è molto inferiore ai 10.000. Questo valore numerico non è però particolarmente significativo, poiché nelle Alpi esistono una serie di piccole realtà attorno ai 5.000 abitanti che, in alcune zone a valli, rappresentano la dimensione “urbana”, ovvero il centro dei servizi.

Si apre quindi un problema: in Ossola esistono altre realtà che possono foggiarsi dell’attributo di “città alpina”?

Dal punto di vista prettamente geografico sì, mentre dal punto di vista demografico, anche abbassando la soglia di abitanti a 5.000 residenti, solamente Villadossola e Crevoladossola potrebbero utilizzare a pieno titolo questo appellativo.

Emblematico a questo scopo è il caso di Piedimulera, cittadina (per alcuni “paesotto”) che conta ora circa 1600 abitanti, ma che ad inizio ’900 rappresentava una vera e propria “città tentacolare” rapportata alla realtà di alcuni paesi limitrofi, in particolar modo quella di Tappia.

In conclusione Piedimulera, come appare evidente anche dall’analisi della commedia “Viaggio di Nozze in 7”, almeno nel 1936, non è a pieno titolo una “città alpina”, ma si tratta di una delle tante realtà urbane, o se vogliamo “semi-urbane”, ricca di “insidie” e “piacevoli tentazioni” (Scarfò, 1988, p. 62), presenti sul variegato territorio ossolano.

Il terzo ed ultimo campo di analisi che voglio affrontare in questo testo,  inerente alla formazione ed alla creazione, attraverso quello che Piercarlo Grimaldi chiama “bricolage contadino”, delle due maschere di Piedimulera, che hanno allietato diversi carnevali.

Tadeo e Pinota, infatti, dopo la loro trionfale apparizione nel 1936, ritornano come maschere del carnevale nel 1980, 44 anni più tardi. A vestire i panni dei due personaggi, che entrano in paese a bordo di un calesse (analogia con Togn e Cia di Domodossola) e che si presentano come una coppia di sposi di una certa età che stanno facendo un viaggio per le loro nozze d’oro, sono questa volta Marco Santolini e Paola Botti.

Le due maschere, una volta in piazza, si incontrano con il Cane, una maschera di cui tratteremo in seguito, e fanno il loro giro per le vie del paese. Qui avviene una cerimonia particolarmente significativa: l’assessore del tempo, Giuseppe Ravasio, consegna alle due maschere le chiavi della città, riconoscendo ai due sposi «il diritto ai due sposi, non solo della residenza effettiva, cosa che aveva suscitato qualche reazione polemica tra gli storici del paese, ma alla coppia venne anche conferita la Cittadinanza onoraria per i meriti acquisiti nell’incremento della manifestazione carnevalesca» (Scarfò, 1988, p. 64).

Il conferimento della Cittadinanza Onoraria e la consegna simbolica delle chiavi della città risultano essere particolarmente significativi. In questo caso si tratta del legittimare, o meglio di “creare” le due maschere che avrebbero dovuto rappresentare il Carnevale. E si tratta di due maschere che hanno una data di nascita ben precisa, il 1936, e che non si perdono in una tradizione mitica o ancestrale. Non si tratta di maschere della commedia dell’arte, né tanto meno di personaggi storici come il Togn e la Cia domesi.

Tadeo e Pinota partecipano anche alla sfilata del Carnevale 1981, insieme alla banda musicale di Fomarco. I due sposi, che, come sottolinea Scarfò, sono «ormai entrati a far parte della tradizione locale» (Scarfò, 1988, p. 65), erano impersonati da Paolo Casetta e Stefania Napoli. Anche nel carnevale 1982 i due personaggi, impersonati questa volta da Gian Luca Del Barba e da Paola Bionda, hanno un posto d’onore all’interno della sfilata.

Nel 1983, come si legge dai verbali del comitato carnevale riportati da Scarfò, Dolores Blardoni cerca disperatamente un Tadeo, che verrà impersonato, in extremis, da Pier Luigi Pirazzi. In questa edizione si assiste ad una grande sfilata, dove alle due maschere si affiancano il “Gran Kan” ed una serie di Paggi e Scudieri accompagnati dal suono di un’orchestrina.

Alberto Bassi e Francesca Guria impersonarono le due maschere nell’edizione 1984, mentre l’anno dopo fu la volta di Silvano Minetti e Mara Lana, sposi anche nella vita. Il carnevale 1986, infine, vede Rino Corazzi vestire i panni di Tadeo, mentre Maria Corias Fattalini quelli di Pinota: si tratta degli ultimi interpreti di queste maschere, che non torneranno più nel carnevale piedimulerese.

Come già evidenziato da numerosi studiosi, la “scomparsa”, in quell’anno, delle due maschere ha rotto un anello della lunga e fragile “catena della tradizione”. Dopo un nuovo periodo di oblio le maschere sono tornate, con l’avvento della prima fase di riscoperta sistematica delle tradizioni conseguente alla cosiddetta “crisi dell’uomo postmoderno” (cfr Grimaldi, 1998), nel Carnevale di Piedimulera. E l’hanno fatto in maniera molto interessante, “unendosi”, grazie all’impegno degli Amici in piazza, gruppo di volontariato facente funzioni di Pro loco, alle maschere di Cimamulera, di cui si tratterà in seguito, formando così un quintetto di maschere carnevalesche ed una sorta di “piccola corte” presieduta dal Gran Can, il Re del Carnevale.

I giornali satirici sono sempre stati uno degli elementi fondamentali delle celebrazioni carnascialesche. In essi possiamo infatti trovare l’elemento di satira sociale che “punge” e mette in ridicolo vizi e caratteristiche del corpo sociale di Piedimulera.

Ma veniamo proprio all’analisi di questo fenomeno ed ala sua storia. Il giornale è nato, ufficialmente, il 2 marzo del 1935. Come ci racconta Scarfò: «era un sabato sera. La veglia danzante e quindi il battesimo del giornale, avvengono nel salone del settecentesco Palazzo Testoni, ora Pirazzi Maffiola. Veglia riservata allora ai più facoltosi o quasi, del paese, unici strati sociali che poteva permettersi un certo dispendio di economie. Padrino del neonato “Ul Tabui” è Achille Savia che in costume “cagnesco” fa il suo ingresso trionfale nel salone, a mezzanotte, fra uno squillar di trombe, scoppiettio di bottiglie di spumante, lancio di stelle filanti, coriandoli, ecc.» (Scarfò, 1988, p. 9).

Proprio in quell’anno assistiamo così alla nascita di due elementi fondamentali del carnevale piedimulerese: il giornale satirico e la maschera del Cane (poi denominata Gran Kan).

Il giornale satirico, prima della seconda guerra mondiale, vide la luce atre due edizioni: nel 1937 e nel 1938. Nel 1936 il giornale non venne pubblicato a causa delle vicende storiche contingenti: la campagna coloniale di conquista di “un posto al sole”, conclusasi nel maggio del ’36, aveva imposto un regime di autarchia, e la carta doveva essere utilizzata per fini militari e non satirici.

Ul Tabui riprenderà ad uscire nel 1946: è la sera del veglione di Carnevale e, a mezzanotte in punto, tra i soliti squilli di tromba, una macchina entra nella sala. Dalla vettura scendono quattro piccoli cani ed una Befana, Pierina Capoferri, che distribuisce il giornale satirico, che neanche a dirlo, va subito a ruba. 

Che le battute e gli sberleffi di questo volumetto satirico fossero particolarmente sagaci è fuor di dubbio. Il suo motto è sempre stato “Can che abbaia ma non morde”, ma le invettive che venivano scagliate, spesso, potevano non essere ben viste dai diretti interessati. Così, nel 1948, qualcuno venne in possesso della bozza definitiva del giornale e, dopo averla letta, non esitò a gettarla in una stufa. Da quel momento il giornaletto satirico non si fece più sentire per ben 12 anni (Scarfò, 1988, pp. 13-15).

Nel 1955 il Carnevale Piedimulerese rinasce: si forma un vero e proprio comitato dirigente che, tre anni dopo, partorirà la vera e propria mascotte del Carnevale, il “Cane”. Ancora una volta a Piedimulera si è voluto giocare sulla tradizione: questo cane-mascotte è infatti un vero e proprio animale, precisamente un bastardino di nome Frida (Scarfò, 1988, p. 18). Dall’anno successivo questa mascotte diventa poi maschera, ed il primo a vestine i panni è proprio Giovanni Scarfò. Il “Cane”, proprio in quest’occasione, declama anche una poesia di Walter Alberisio.

Gli anni ’60 sono senza dubbio il decennio del boom economico. Mentre in molte zone d’Italia le tradizioni diventano obsolete e vengono progressivamente abbandonate, il Carnevale piedimulerese si rafforza: nel ’60 ritorna il giornale satirico “Ul Tabui” ed il “Cane”, la maschera, riceve in regalo un vestito di seta confezionato su misura da una sartoria locale (Scarfò, 1988, p. 20).

Durante il Carnevale dell’anno seguente si formalizzarono i ruoli degli attori festivi: il “Cane” precede il lungo corteo mascherato che sfilava per le vie del paese in occasione del martedì grasso. Negli anni seguenti le caratteristiche di questa maschera si delineano sempre di più: nel 1963 il Cane trova ufficialmente residenza a Saslero, l’anno successivo viene dotato addirittura di roulotte targata SS (Saslero). 

Nel 1965, a causa del maltempo, il “Cane” non esce in sfilata. E questa maschera non sfilerà per diversi anni. Anche in questo il gioco della tradizione rivela il suo grande difetto e la sua fragilità: basta che un anello di questa catena di trasmissione del sapere, del “come si svolge” una determinata festa, si spezzi, che ci si trova di fronte a risultati completamente inattesi. Il Cane ed “Ul Tabui” hanno destini contrapposti: il primo scompare dal 1967 al ’69, mentre il secondo, dopo le edizioni ’61 e ’62, scompare per ritornare nel 1968-’69.

Nel 1968, in piena crisi delle feste tradizionali, anche il Carnevale Piedimulerese cambia giorno: non più martedì, ma le manifestazioni slittano alla domenica precedente.

Interessanti le motivazioni che adduce Scarfò: «il martedì, solitamente giorno feriale, vedeva l’assenza di molti addetti ai lavori, in quanto impegnati altrove. Occorreva uno speciale permesso delle autorità scolastiche per la vacanza del pomeriggio. Per di più il programma domenicale, lascia l’alternativa di utilizzare il martedì ultimo di Carnevale, qualora il clima non avesse permesso lo svolgersi della festa alla prima data domenicale» (Scarfò, 1988, p. 20).

Nel ’69 si sperimenta anche il “Palio delle frazioni”, ma, dato che vi partecipò un solo carro, questa forma di evento folklorico fu presto abbandonata.

Nel 1970 il Carnevale torna alle origini: le manifestazione tornano a svolgersi in occasione del Martedì grasso, come succederà anche l’anno seguente, ed il giornale satirico si adegua alle esigenze economiche, con una veste grafica particolarmente spartana. La vera e propria novità è che, da quell’anno, la maschera del Cane assume il nome di Gran Kan, dotato di un nuovo costume (Scarfò, 1988, p. 40). Come al solito Carnevale diviene un periodo dove fare satira, anche pungente, sulle situazioni del presente. Il 1971 è l’anno in cui Giovanni Scarfò, nelle vesti di Gran Kan, legge una vera e propria preghiera del cane, una sorta di appello di pace (tanto tra gli uomini quanto tra i cani) che viene “spedito” in cielo appeso ad un grappolo di palloncini.

La storia del Cane come attore del Carnevale, la sua comparsa e la sua scomparsa seguono vicende alterne: nel 1972 non appare, e viene sostituito dalla figura di Re Carnevale. Proprio queste due figure di maschere rituali arriveranno quasi a sovrapporsi ed a confondersi tra di loro. Anche nei testi presi in esami le tre maschere arrivano spesso a confondersi in un non ben identificabile  Cane-Gran Kan-Re Carnevale. Nel 1973, andato “in pensione” Giovanni Scarfò, sulle pagine di Eco Risveglio Ossolano viene fatto un annuncio “Carcasi Cane per il Carnevale”. 

Le manifestazioni carnevalesche di quegli anni continuano a procedere normalmente, ma la presenza del Gran Kan è senza soluzione di continuità: come scrive Scarfò «a queste diserzioni del nostro simbolo ci abbiamo ormai fatto l’abitudine» (Scarfò, 1988, p. 57).

Nel 1979 nasce l’idea di scommettere sulla reale identità del Gran Kan. Non si tratta di una novità: in molte manifestazioni carnevalesche, l’identità dell’essere umano che si nasconde dietro la maschera è e deve rimanere segreta. Accade proprio questo, ad esempio, riguardo all’identità dell’Orso di Mompantero, paese della val di Susa caratterizzato da un carnevale etnograficamente molto rilevante. Per citare esempi più vicini all’ethnos di Piedimulera basta osservare il Carnevale di Villadossola dove l’identità delle due maschere tradizionali, forse in contrapposizione a quelle domesi, deve rimanere segreta. I fondi ricavati da queste scommesse, tornando a Piedimulera, venivano poi utilizzati per beneficenza. 

In conclusione la figura del Gran Kan, la vera e propria mascotte del Carnevale piedimulerese continua a fare la sua comparsa nelle manifestazioni, anche assumendo il ruolo di Re Carnevale. 

Per quel che riguarda il Tabui, il giornale satirico, ci fu un lungo silenzio dal 1973 sino al 1986, quando riappare sporadicamente, per poi tornare nell’oblio.

E qui, siamo nel 1988, si conclude il lungo ed esaustivo racconto di Scarfò. Ma il Carnevale ha continuato ad andare avanti.

Le manifestazioni del Carnevale, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, subiscono delle importanti modifiche, a causa, soprattutto, della nascita di due associazioni: gli “Amici in Piazza” di Piedimulera ed il “Comitato Profesteggiamenti Cimamulera”.

Come si svolge oggi il Carnevale tipo? Per rispondere a questa domanda basta analizzare il programma dell’edizione 2008, nella quale sono stati organizzati, in sinergia tra le due associazioni, quattro giorni di festeggiamenti.

Nella serata di venerdì “grasso”, si sono aperti ufficialmente i festeggiamenti, con la presentazione delle maschere. Oltre a Taddeo e Pinota, quest’anno impersonati da Gian Luca Guzzetti e da Marjorie Aguilera Bustamante, sono arrivate anche Pin Paulin e Lena, le due maschere di Cimamulera.

La storia di questi due personaggi, che hanno fatto la loro apparizione nel carnevale 2005, è molto particolare e degna di nota. Si tratta, antropologicamente parlando, di una vera e propria neo-tradizione: molto probabilmente, già tra qualche anno la “data di nascita” delle maschere verrà infatti dimenticata ed entreranno a pieno titolo nell’apparato tradizionale, ovvero, prosaicamente, la gente affermerà che queste due maschere “ci sono sempre state”. 

Ma chi sono Pin Paulin e Lena? Secondo gli organizzatori dell’evento si tratta di due maschere che riprendono due personaggi realmente esistiti, vissuti a Pairazzo ad inizio Novecento. Si tratta di una coppia di fratello e sorella, non sposati, di mezza età che riprendono, se vogliamo riprendere la classificazione di Gallo Peccia, l’archetipo dei vecchi brontoloni. Infatti Pin Paulin e Lena litigano praticamente su qualsiasi argomento, e vengono scherniti da tutto il paese. Per la codifica del loro costume, si è unita fantasia e ricerca storica. Infatti il costume della Lena riprende un abito tradizionale femminile in uso a fine Ottocento: un vestito nero con sottana con ricami di pizzo bianco, un foulard sulla testa, riprendendo da vicino anche i costumi della valle Anzasca codificati.

Per quel che riguarda l’abbigliamento di Pin Paulin gli organizzatori hanno lavorato maggiormente di fantasia: un lungo mantello nero, un bastone, pantaloni alla zuava ed un cappello a larghe tese, anch’esso nero, sono gli elementi caratteristici del suo costume.

Torniamo ora alla scansione del Carnevale contemporaneo: dopo la presentazione delle maschere, a cui vengono consegnate le chiavi del paese, viene distribuito anche il giornale satirico: dal 1996, infatti, Ul Tabui, con le sue frecciatine sulle storture piedimuleresi, ha ripreso ad uscire annualmente, dopo un periodo, dal 1988 sino al 1996 in cui la sua periodicità era stata abbastanza discontinua.

Nella mattinata di sabato, invece, le maschere girano per il paese, ma la vera giornata clou è quella di domenica, in cui, partendo dal piazzale della stazione, il corteo aperto dal Gran Kan (anch’egli tornato a partire dal 1996) a cui fanno seguito altri gruppi folk e le maschere sopraccitate, sfila allegramente portando la sua ventata di allegria tra la popolazione presente.

Bisogna ora fare una piccolissima annotazione sulla figura del Gran Kan. Come già analizzato, anche in questo caso la maschera è tornata a ricoprire il ruolo di Re Carnevale come dimostra il suo costume: abiti regali a cui si aggiunge una grande testa di Cane.

Le manifestazioni carnascialesche si concludono il martedì grasso, quando si svolge il carnevale Cimamulerese. Il programma prevede, nel pomeriggio, la sfilata dei carri e delle maschere, a cui fa seguito la distribuzione, gratuita, di polenta, salamini e gorgonzola, il piatto tipico carnevalesco ossolano, offerta dal Comitato Pro Festeggiamenti Cimamulera. Nel pomeriggio viene anche effettuata l’estrazione della piccola sottoscrizione a premi che viene organizzata: da diverso tempo il primo premio è rappresentato da un agnello vivo. Purtroppo non si registra più la presenza del giornale satirico «I Santui», di cui di parlava Gallo Peccia, ma gli organizzatori non hanno escluso un prossimo ritorno di questo divertente numero unico.

Una delle particolarità di questa manifestazione è senza dubbio il metodo di reperimento dei soldi: si svolge una vera e propria questua tra gli abitanti di Cimamulera. Un paio di settimane prima del carnevale, infatti, quattro componenti del Comitato, secondo un’usanza che si tramanda da diverse generazioni, suonano i campanelli delle varie abitazioni per raccogliere i soldi necessari alla distribuzione gratuita della polenta, particolarmente apprezzata dai più anziani.

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