Tra Morositas e Costumi tipici. Il passaggio dalla donna svestita a quella in costume nella nuova frontiera della "pornografia turistica"

Un tempo c'erano le donne, rigorosamente svestite, che ammiccavano seducenti per pubblicizzare qualsiasi prodotto: dalle caramelle gommose al dentifricio.

Erano gli anni '80 e sulle tv commerciali spopolava la pubblicità delle Morositas, dove una avvenente ed ammiccante  ragazza di colore si mostrava in short rosa per pubblicizzare delle gommose caramelle alla liquirizia.

Oggi sono passati diversi anni, la sensibilità è cambiata e - grazie anche ai movimenti femministi, non ultime le Femen o il movimento #MeToo - l'uso della figura femminile sta progressivamente cambiando,  soprattutto nel media-scape, dove troviamo donne forti e determinate che hanno sostituito l'archetipo della fanciulla da salvare.

Ma, nonostante tutto, ancora oggi assistiamo - purtroppo! - ad una feticizzazione della donna, che diventa l'eponimo e la portatrice della "tradizione",  con tutti i problemi conseguenti. 

Ho già avuto modo di trattare il problema del ruolo della donna nella conservazione della "tradizione" dal dumping culturale. «Non si butta via niente» (né le stringhe delle scarpe bucate, né gli avanzi del giorno del prima) è forse lo slogan che rappresenta meglio il ruolo femminile di conservazione del mondo tradizionale, di preservazione e mantenimento dei rituali e della cultura, soprattutto immateriale. 

Ed ho già avuto modo di trattare anche alcuni esempi di fakelore molto pericolosi e fallimentari, quali il "carnevale multietnico", reo di non aver integrato l'alterità quanto piuttosto di averne creato rappresentazioni etnocentriche (il cinese con il cappellino a cono o l'africano - in generale, non importa se proveniente da Senegal, Somalia o Congo - con l'osso nei capelli) a nostro uso e consumo.

Ed oggi si sta assistendo ad un revival - molto più pericoloso a mio parere - di questo fenomeno: le donne in costume onnipresenti come "testimonial" di un territorio.

Naturalmente bisogna valutare caso per caso, non sempre l'uso del costume è da boicottare o da tacciare di essere irrispettoso della cultura autoctona.

A Domodossola, ad esempio, un bar in pieno centro ha messo la "divisa" alle cameriere vestendole con una versione (riveduta e corretta) del costume tipico formazzino. Marchettone pubblicitario? Forse. Un buon esempio di "product placement"? Anche. Evoluzione dei "Maid bar" giapponesi? Certo, sotto alcuni aspetti.

Nessuno mette in dubbio il significato prettamente promozionale di questa esteriorizzazione del costume, né che mettere il costume alle cameriere sia basato sul cosiddetto "valore aggiunto della tradizione", permettendo di avere un aumento di ricavo. Ma la cosa più interessante è parlare con le cameriere, che non vedono l'indossare il costume come una forzatura, ma come un valorizzare le loro origini formazzine. 

Il meccanismo su cui si basa questo "gioco della tradizione" è molto interessante: si indossa il costume tipico riveduto e corretto (reso anche più funzionale) per appartenenza, per rimandare nel subconscio al ruolo della donna come addetta all'ospitalità ed alla cura della casa, si rimanda alla tradizione ed alla genuinità rifacendosi come al solito ad una tradizione mitizzata a-storica ed a-temporale...

 

Altre volte, invece, questo gioco della tradizione assume aspetti più "folkloristici", intesi nel senso dispregiativo del termine, di vero e proprio sfruttamento simile, se vogliamo, alle hawaiane in gonnellino di paglia che accolgono i turisti con le collanine di fiori appena usciti dall'aeroporto.

E' il caso di una fotografa (non professionista) che ha voluto organizzare una mostra sui volti delle persone del mio territorio. A parte i giudizi estetici sugli scatti e sul "mettere in posa" le modelle (cosa che si faceva ai tempi di Estella Canziani), a parte che il mio modus operandi preferisce una fotografia più giornalistica o antropologica, senza interventi da parte dell'operatore, in una osservazione partecipante tipica del metodo antropologico che porto avanti da oltre vent'anni, il problema è di matrice filosofica.

I miei dubbi e la mia critica riguarda soprattutto sull’uso ed il ruolo del costume all’interno della narrazione, che rischia di trasformare tutto in un folklorismo ormai sorpassato. “Giocare” con la tradizione è infatti molto pericoloso e può essere fortemente controproducente. Non vogliamo finire come la polinesiana nei villaggi Francorosso!

Nelle idee dell'artista, che avrei dovuto presentare, c'era quella di trasformare le donne in costume in veri e propri cavalletti umani per le foto. Una performance artistica già vista, per carità, da Marina Abramovic a Milo Moire: ma mentre nel caso delle due artiste questa rappresentazione del corpo (nudo o vestito poco importa) femminile era oggetto di denuncia, in questo caso era mero feticismo del costume.

Ed anche la mostra altro non era che una semplice wunderkammer, un gabinetto delle meraviglie, il cui le donne che portano il costume - con fatica ed orgoglio, come simbolo di appartenenza, sacralizzandone l'uso - sono viste come le stranezze naturali (in questo caso culturali) simili se vogliamo al capretto a due teste. 

Il rischio di questi lavori, che non tutelano e non preservano il costume tipico, essendo le persone ritratte ad hoc, pari ai set fotografici dei cosplayer, con cui molto hanno in comune, è quello dello sfruttamento dell’immagine della donna in costume analogo alle donne discinte e dalle vertiginose scollature che pubblicizzano il dentifricio. 

 

 

Come amo dire: la tradizione è un gioco. E proprio per questo è una cosa estremamente seria.

Esporre le donne in costume, dal vivo o in fotografia poco importa, trascendendo del tutto l'atto performativo che le ha portate ad indossare quel costume, la "tradizione" che c'è alle spalle ed il simbolismo dietro quel vestito, i motivi per cui è stato ripreso ed è tornato ad essere stato utilizzato, vuol dire trasformare la cultura che queste donne vogliono portare avanti in becero fakelore, sfruttarlo a fini turistici, commerciali o autocelebrativi come si fa con il corpo più o meno nudo delle modelle che pubblicizzano le Morositas.

Questo uso non salva di certo la memoria della cultura popolare, non conserva il "bottone della tradizione", ma sembra piuttosto volerlo gettare a terra in un ipotetico Campo dei miracoli, dove il ruolo dei poveri Pinocchio sfruttati è assunto dalle donne in costume, inconsapevolmente coinvolte in un progetto da Gatto e Volpe con macchina fotografica a tracolla in nome della "tradizione".


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